5. Il Gender Pay Gap

5. Il Gender Pay Gap

Che cos’è, alcuni dati, quali sono i suoi effetti

Premessa
Per le donne, l’empowerment economico rappresenta un requisito fondamentale verso il raggiungimento di maggiore autonomia, potere decisionale e, nei casi di violenza, per intraprendere percorsi di fuoriuscita. Tuttavia, le condizioni di accesso al mercato del lavoro, ma anche la qualità del lavoro svolto, e la retribuzione delle donne presentano ancora differenze sostanziali rispetto a quelle degli uomini. In Italia meno di una donna su due lavora, e prima dell’arrivo della pandemia la differenza nel tasso di occupazione tra uomini e donne era di quasi 20 punti percentuali[1], con un divario di genere tra i più alti d’Europa, ovvero circa 18 punti contro una media europea di 10[2]. La pandemia ha aggravato questa situazione di sostanziale disparità, al punto che WeWorld ha stimato che la perdita di occupazione femminile, tra il 2019 e il 2020, corrisponde al 22% della perdita di PIL del paese[3].

La maternità come ostacolo all’occupazione
Purtroppo, i figli sembrano ancora rappresentare un ostacolo alla piena occupazione delle donne, con l’11% delle madri che non ha mai lavorato. Alla nascita dei figli, la quota di donne che hanno abbandonato il lavoro è pari all’11% nel caso ne abbiano avuto uno solo, al 17% con due figli e al 19% con tre o più. E ancora: sono il 38,3% le donne occupate che, dopo la nascita dei figli, hanno apportato almeno una modifica all’orario di lavoro, contro l’11,9% dei padri occupati[4]. La maternità è inoltre associata a una forte perdita salariale per le donne. Ciò avviene per una molteplicità di ragioni culturali, sociali ed economiche, nonché per la mancanza di adeguati sistemi di welfare che sostengano le famiglie nella crescita e cura dei figli/e. Tale effetto, conosciuto come child penalty, si traduce in cifre allarmanti: in Italia la perdita di lungo periodo nei salari annuali delle madri determinata dalla nascita di un figlio è del 53% di cui il 6% è dovuta alla riduzione del salario settimanale, l’11,5% dovuto al part-time e il 35,1% dovuto al minor numero di settimane retribuite[5]. Tutto ciò ha conseguenze di rilievo sulle scelte riproduttive delle donne e delle famiglie. Non a caso il nostro paese continua a segnare record negativi per quanto concerne la natalità: nel 2020 l’Italia ha registrato il numero di nascite più basso dai tempi dell’Unità d’Italia[6]. Ma scelta della maternità e occupazione femminile non si precludono a vicenda, al contrario in molti paesi europei è stata dimostrata una relazione positiva tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità totale: dove la fecondità media è molto bassa, sotto 1,4 figli per donna (ad es. Italia, Spagna, Grecia, Malta) il tasso di occupazione femminile è inferiore al 60%; dove la fecondità media è superiore a 1,7 (paesi baltici e Regno Unito) il tasso di occupazione è superiore al 70%. Dunque, dove esiste un contesto favorevole alle famiglie da parte delle imprese e dei servizi, in cui esistono adeguati strumenti di conciliazione, il lavoro delle donne non è più un ostacolo alla maternità, ma un prerequisito per aumentare i livelli di natalità[7].

Il Gender Pay Gap
A ostacolare una piena occupazione femminile si aggiungono altre problematiche, quali la femminilizzazione di alcuni settori lavorativi (servizi, professioni sanitarie, commercio al dettaglio ecc.), la difficoltà nell’accedere a posizioni apicali, la sovra-istruzione rispetto ai ruoli e alle mansioni ricoperte, e il Gender Pay Gap. Il Gender Pay Gap (GPG) consiste nella discriminazione salariale di genere, ovvero la differenza, a parità di mansione e di competenze, tra la retribuzione di uomini e donne. Se si considerano le sole differenze salariali tra uomini e donne (il cosiddetto GPG grezzo), apparentemente sembrano non esistere discriminazioni di rilievo tra i generi. Se invece si considerano oltre al salario altri fattori (quali il numero di settori a prevalenza di personale femminile, il numero mensile delle ore retribuite, il numero dei lavoratori part time e il numero di donne in posizioni dirigenziali), la differenza salariale tra uomini e donne è elevata (43,7% vs una media europea del 39%[8]). Secondo il Gender Gap Report (2020) a livello mondiale la parità in ambito economico non verrà raggiunta prima di 257 anni.

Le motivazioni culturali
Tra le varie ragioni alla base di queste disparità si trovano radicati stereotipi. Le donne, infatti, devono costantemente fare i conti con un sistema socio-culturale di derivazione patriarcale che le vede ancora come principali caregiver, addette ai compiti di cura e accudimento, mentre l’uomo resta il breadwinner, colui che deve provvedere al sostentamento della famiglia. Da indagini svolte da WeWorld nel corso degli anni emerge una visione abbastanza stereotipata della donna. La figura femminile troverebbe la sua realizzazione prevalentemente nella cura delle faccende domestiche e familiari (l’uomo non è immune dal doversi occupare delle faccende domestiche certo, ma è la donna ad essere capace di sacrificarsi per la famiglia, molto più di quanto sappia fare l’uomo, soprattutto in presenza di figli), mentre è per lo più l’uomo che dovrebbe mantenere la famiglia, dedicarsi al lavoro e allo studio[9]. Ciò naturalmente incide sulla partecipazione delle donne al mondo del lavoro, ancora molto legata ai carichi familiari e al lavoro di cura che continuano a rappresentare un paradosso per l’empowerment femminile, relegando le donne in posizioni di subalternità rispetto agli uomini. A causa del carico sproporzionato di lavoro domestico e di cura, le donne soffrono di “povertà di tempo” da poter investire in istruzione, lavoro retribuito, o anche solo nel tempo libero. Nel mondo, il tempo che le donne spendono per il lavoro di cura o domestico è 2,5 volte superiore a quello degli uomini[10]. Si stima che se venisse assegnato un valore monetario al lavoro domestico e di cura delle donne, questo si aggirerebbe tra il 10 e il 39% del PIL globale[11].

Quali soluzioni?
Per contrastare tali disparità, è necessario far sì che tutte e tutti possano contare su pari condizioni di partenza, seguire gli stessi percorsi di studi, accedere a posizioni apicali, non dover rinunciare alla carriera per accudire i figli. Molte aziende si stanno dotando di sistemi più trasparenti, pubblicando ad esempio la retribuzione dei loro dipendenti con l’indicazione di genere, e di politiche di welfare aziendale che garantiscono una migliore conciliazione dei tempi di vita-lavoro. Su quest’ultimo punto sarà però necessario svolgere un grande lavoro culturale. Potenziare strumenti come il congedo di paternità e i congedi parentali per i padri rappresenta una delle policy più efficaci[12] non solo per coinvolgere maggiormente i padri nella cura dei figli, riequilibrando il divario di genere nel lavoro non retribuito, ma anche per consentire alle donne di rientrare più velocemente nel mercato del lavoro (con conseguenze sui salari e le carriere lavorative). Coinvolgere pienamente le donne nel mercato del lavoro è necessario perché si tratta di una questione di giustizia sociale, ma anche per la crescita economica che tale coinvolgimento comporterebbe. È ormai condiviso che la parità di genere – oltre ad essere un valore universale a cui tendere e un diritto per le donne – è precondizione essenziale per lo sviluppo.

1. Censis (2019), Respect
2. Istat (2020), Misure a sostegno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per la conciliazione di esigenze di vita e lavoro
3. WeWorld (2021), Mai più invisibili. Indice 2021: Donne, bambine e bambini in Italia ai tempi del Covid-19
4. Ibidem
5. INPS (2020), XIX Rapporto Annuale. INPS tra emergenza e rilancio

6. Istat (2021). BES 2020. Il benessere equo e sostenibile in Italia, (accesso marzo 2021)Istat (2021a), Primi riscontri e riflessioni sul calo demografico nel 2020, 
7. InGenere (2018), Nascite e occupazione possono crescere insieme

8. OECD (2020), Gender wage gap
9. WeWorld (2014), Rosa Shocking WeWorld (2015), Rosa Shocking 2 WeWorld (2017), Gli italiani e la violenza assistita. Questa sconosciuta. 
10. ILO (2017), World Employment Social Outcome – Trends for Women 2017
11. UNRISD,(2010), Research and Policy Brief 9:Why Care Matters for Social Development 
12. WeWorld (2021), Promuovere l’empowerment economico femminile attraverso i congedi di paternità e i congedi parentali per i padri

A cura di Elena Caneva e Martina Albini, Area Advocacy Nazionale, Policy e Centro Studi

4. Violenza assistita

4. La violenza intrafamigliare assistita

Cosa è, come riconoscerla, quali sono le conseguenze nel breve e nel lungo periodo

Premessa
La violenza intrafamigliare assistita è una forma di violenza legata alla violenza sulle donne, eppure non se ne parla spesso. La stragrande maggioranza della popolazione italiana non sa bene cosa sia e non conosce la portata del fenomeno. Ma le conseguenze di questa forma di violenza sono gravissime, sia a livello personale e relazionale sia a livello sociale.


Una definizione di violenza intrafamigliare assistita
La violenza intrafamigliare assistita viene definita per la prima volta nel 1999 dal Cismai1 come “il fare esperienza da parte del/la bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti e minori”. È dunque la violenza che subisce un/a bambino/a nell’ambito domestico, quando è costretto ad assistere a ripetute scene di violenza fisica, verbale, psicologica, di solito tra i genitori. Per essere considerati/e vittime di violenza assistita, i/le bambini/e non devono essere per forza fisicamente presenti agli atti violenti. I bambini percepiscono “quello che succede”, vivono la violenza attraverso i segni fisici sul corpo della madre o quelli psicologici (la tensione che si avverte nell’ambiente famigliare, lo stress, la depressione, ecc.) e hanno la capacità di cogliere ogni emozione delle persone di riferimento più vicine.
La violenza assistita è un fenomeno spesso sottovalutato e/o ignorato ma diffuso: in Italia tra le donne che hanno subito violenza, il 65,2% aveva figli al momento della violenza, che nel 71% dei casi hanno assistito (il 16,3% raramente, il 26,8% a volte e il 27,9% spesso) e nel 24,7% l’hanno subita (l’11,8% raramente, l’8,3% a volte, il 4,7% spesso)2.
Quando la violenza famigliare sfocia nel femminicidio, i bambini e le bambine vittime di violenza assistita diventano orfani di femminicidio o orfani speciali. Bambini/e e ragazzi/e che si trovano nella condizione di aver perso entrambi i genitori (la madre perché vittima di omicidio, il padre perché arrestato o in alcuni casi suicidatosi dopo il delitto). Bambini/e e ragazzi/e che devono affrontare il trauma psicologico ed emotivo delle violenze e della perdita, ma anche il trauma pratico di dover cambiare abitudini e di dover iniziare una nuova vita con una nuova famiglia (di solito si tratta di parenti, ma è pur sempre un nuovo contesto).
Si può facilmente intuire quali siano le conseguenze emotive per un bambino/a che vive un’esperienza simile. Più difficile è immaginare altri tipi di conseguenze, non solo per i bambini/e orfani di femminicidio ma in generale per tutti quelli/e che hanno vissuto esperienze di violenza intrafamigliare.
Le conseguenze sulla salute sono di tipo psicologico ma anche fisico. Nel breve periodo possono essere frequenti problemi di insonnia o di incubi notturni, disagi legati alla paura, alla confusione, rabbia, senso di colpa e di vergogna; nel medio- lungo termine sono frequenti disturbi quali lo stress post traumatico, la depressione e l’ansia, ma anche disturbi fisici quali diabete, malnutrizione, problemi visivi, limitazioni funzionali, attacchi cardiaci, artrite, problemi alla schiena, di pressione del sangue, danni al cervello, emicrania cronica, patologie dell’apparato respiratorio, cancro, infarti, patologie intestinali, sindrome da fatica cronica.
Vi sono poi conseguenze sulle relazioni: difficoltà a relazionarsi con gli altri, comportamenti violenti (che si traducono per esempio in forme di bullismo), introiezione della violenza come modalità normale di gestire le relazioni e di una visione distorta dei rapporti tra i generi. Strettamente collegate a tutti questi disturbi vi sono conseguenze importanti sul principale ambito di vita di bambini/e e ragazzi/e: la scuola. È indubbio che un bambino/a vittima di violenza avrà difficoltà a scuola: nel mantenere la concentrazione, nel seguire le lezioni, nello studio, nella frequenza scolastica. Infine non bisogna dimenticare uno dei risvolti più gravi della violenza assistista intrafamigliare: la sua trasmissione di generazione in generazione. Cosa significa? Tutti gli studi ci dicono che i bambini e le bambine che sono stati/e vittime di violenza assistista da piccoli, da grandi tenderanno a riprodurre gli stessi comportamenti. Per le bambine è elevata la probabilità che da adulte diventino vittime di violenza, per i bambini che diventino maltrattanti. Secondo i dati Istat in Italia tra tutte le donne che sono state vittime di violenza, 6 su 10 sono state picchiate da piccole dal padre. Se ci pensiamo bene è abbastanza scontato: in fondo nella nostra infanzia introiettiamo determinati modelli genitoriali e di relazione di coppia, che influenzeranno i modi in cui ci relazioneremo con i nostri partner nella vita futura. Se impariamo che l’unica modalità di relazione è la violenza e che i rapporti tra i generi si basano sul dominio maschile, tenderemo a riprodurre queste dinamiche nella vita adulta. Eppure quando sentiamo parlare di violenza assistita, spesso non pensiamo a questo aspetto. In generale, a dire il vero, tra gli italiani c’è ancora poca consapevolezza del fenomeno, e dunque delle sue conseguenze. Da un sondaggio svolto da WeWorld con Ipsos3 emerge che la metà degli italiani non ha mai sentito parlare di violenza intrafamigliare assistita e il 36% l’ha solo sentita nominare. Gli italiani non hanno neppure completa consapevolezza delle conseguenze della violenza assistita sui bambini e le bambine. Solo circa 1 italiano su 3 sa che la violenza si trasmette di generazione in generazione. Dallo stesso sondaggio emerge come per gli italiani dovrebbero essere soprattutto le famiglie a farsi carico di sensibilizzare rispetto ai temi della promozione della parità tra uomini e donne e del rispetto delle differenze, come strumenti per prevenire la violenza contro le donne e i bambini/e. Ma, poiché la violenza contro le donne e quella assistita sui bambini si verificano proprio all’interno delle famiglie, è fondamentale agire anche e soprattutto in altri contesti: la scuola (di ogni ordine e grado) deve essere primaria agenzia educativa rispetto a queste tematiche. Ma lo possono essere anche i contesti lavorativi, dove ognuno di noi trascorre la maggior parte della propria vita quotidiana, e dove si può diffondere conoscenza, sensibilizzare uomini e donne e fornire gli strumenti per eventualmente individuare casi a noi vicini di violenza contro le donne e i bambini/e. 

1. CISMAI (2017), Requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita, http://cismai.it/requisiti-minimi-degli-interventi-nei-casi-di-violenza-assistita/ . Il Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia (CISMAI) è un’associazione formata da vari Centri e Servizi appartenenti al settore pubblico (Comuni e ASL) e al terzo settore (Cooperative sociali, associazioni no-profit e di volontariato), ma anche singoli professionisti (assistenti sociali, psicologi, medici, neuropsichiatri, avvocati, educatori) attivamente impegnati nella tutela, protezione e cura delle bambine e dei bambini maltrattati e delle loro famiglie.


2. Istat (2015), La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, https://www.istat.it/it/archivio/161716

3.WeWorld (2017), Gli italiani e la violenza assistita: questa sconosciuta. Brief Report n. 4, https://www.weworld.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/brief-report-n-4

Elena Caneva
Martina Albini
Area Advocacy, Policy e Centro Studi, WeWorld Onlus

3. La violenza nelle parole

3. La violenza nelle parole

Linguaggio sessista, mansplaining, catcalling, abusi verbali

Premessa
La violenza, in particolare quella di genere, è in grado di assumere forme subdole, insinuandosi in comportamenti apparentemente innocui e in stereotipi spesso inconsapevoli. Può annidarsi ovunque, anche nelle parole.
Come? Partiamo innanzitutto dal definire la differenza tra linguaggio e lingua, spesso usati (erroneamente) come sinonimi. Il linguaggio è un qualsiasi sistema di segni usato per comunicare: può essere verbale o non verbale, scritto, numerico, umano o persino animale. La lingua, invece, è una manifestazione verbale, storicamente determinata, del linguaggio. Esercitare responsabilmente linguaggio e lingua è un primo e importante passo per contrastare pratiche escludenti e discriminatorie, come la violenza di genere.


Linguaggio sessista, mansplaining, catcalling, abusi verbali
Il linguaggio è un mezzo potente in grado di veicolare costrutti sociali e creare narrazioni che finiscono per definire la realtà in cui viviamo. L’uso di un linguaggio violento è a tutti gli effetti una forma di violenza. Pensiamo al caso della violenza di genere: il ricorso reiterato a un linguaggio sessista influenza la visione che abbiamo del genere, alimentando i pregiudizi.
Siamo portati a pensare che il linguaggio sia semplicemente un mezzo “oggettivo” per veicolare contenuti. Di fatto il linguaggio contribuisce a plasmare la realtà in cui viviamo, e il modo in cui scegliamo di usare le parole trasmette una certa idea di mondo.
Vi sembra poco chiaro? Facciamo alcuni esempi.
“Marco, Francesca e Lucia sono appena arrivate”. Vi suona strano? Se dovessimo seguire le regole che ci hanno insegnato alle scuole elementari probabilmente diremmo “sono appena arrivati”, ma riflettendoci un attimo su… perché dobbiamo proprio declinare al maschile? Francesca e Lucia sono due, mentre Marco è uno solo: non vale la regola della maggioranza? In questo caso no, perché in italiano esiste una particolare convenzione chiamata “maschile universale”. Ma chi ha deciso che il maschile plurale deve per forza essere la forma che include l’universale? Chi ha deciso che “normale” è maschile? La normalità del maschile non è una regola, ma un’ideologia. Un’ideologia che si è costruita sulla dominanza del maschile, su retaggi storici patriarcali. La questione del genere grammaticale racchiude altre criticità. Pensiamo alla reticenza nel declinare certe professioni al femminile: ministra, sindaca, assessora, ingegnera… per non parlare della famigerata architetta, la cui assonanza con il seno femminile fa storcere il naso ai più. Eppure, tornando ancora alle regole imparate alle elementari, si tratta di forme grammaticalmente corrette. Nominare è la prima azione per dare significato all’esistenza. Ciò che non si nomina, non esiste. Questo accade spesso anche sui media e i quotidiani nazionali, che preferiscono ricorrere a perifrasi colorite come “La regina delle stelle” piuttosto che riportare nome, cognome e ruolo di una celebre astrofisica. È solo un’altra forma di linguaggio sessista. In questo caso il problema non è linguistico,
ma socio-linguistico. La lingua modifica la realtà, e se ci abituiamo a non parlare di donne, tenderemo a non prenderle in considerazione. Studi neurolinguistici hanno infatti dimostrato quanto la lingua sia in grado di modellare non solo il nostro pensiero, ma di modificare il cervello stesso, e dunque la nostra percezione della realtà[1].
Il fatto che la nostra lingua sia stata, e si sia, costruita attorno a una cultura di origine patriarcale ha conseguenze sul modo che abbiamo di guardare e di raccontare le donne. Tutte le forme linguistiche portatrici di categorizzazioni e ideologie, come appunto il linguaggio sessista, sono talmente radicate nel nostro sentire che difficilmente le riconosciamo, finendo per utilizzare espressioni anche lontane dai valori e dalle convinzioni che ci appartengono. Pensate all’espressione “una donna con le palle”, o ancora “una donna cazzuta”. A primo acchito vi sembrano positive, vero? Ma pensandoci bene, perché una donna, per essere ritenuta forte, risoluta, assertiva dovrebbe necessariamente avere attributi maschili? Stiamo forse sottintendendo che per diventare modelli positivi le donne dovrebbero assomigliare agli uomini? Che quello maschile è l’unico modello a cui aspirare?
C’è poi il problema del cosiddetto double standard, o doppio senso, attribuito a espressioni nella loro declinazione femminile e maschile. Pensiamo alle immagini diverse che evocano “un uomo della strada” vs “una donna della strada”, “un massaggiatore” vs “una massaggiatrice”, “un gatto morto” vs “una gatta morta” ecc. Si tratta di espressioni molto connotate (per lo più sessualmente) che rimandano a una visione oggettivizzata della donna.
Il linguaggio sessista è un’arma a doppio taglio e colpisce anche gli uomini. Espressioni come “Non fare la femminuccia”, “Sono cose da maschi”, “Mammo” (al posto di papà) rafforzano un ideale di virilità artefatto e la netta separazione tra caratteristiche arbitrariamente attribuite agli uomini e alle donne.
Il predominio maschile nella conversazione si esplicita anche nel cosiddetto mansplaining, in italiano “minchiarimento” o, usando una perifrasi, “uomini che spiegano cose alle donne”. Il mansplaining indica “l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini quando spiegano a una donna qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne più di lei oppure che lei non capisca davvero”. Questo atteggiamento (che può essere più o meno esplicito, più o meno consapevole) finisce per delegittimare le donne e le loro capacità. Ha conseguenze emotive, psicologiche e sociali su chi ne è il bersaglio; sui luoghi di lavoro può portare a escludere le donne, anche se qualificate, dalle decisioni di responsabilità e dalle posizioni apicali. Questi esempi ci aiutano a comprendere come un uso improprio e dominatorio del linguaggio possa sfociare in violenza. Quando si abusa verbalmente di qualcuno la parola diventa strumento per il maltrattamento emotivo. Ciò può avvenire tramite denigrazioni, derisioni, urla, minacce, insulti, critiche continue. Quanto più prolungata e intensa è la natura dell’abuso verbale, tanto più profonde saranno le ferite inferte e le conseguenze avverse per la salute psicofisica della vittima.
Una forma forse più sottile, spesso anzi considerata innocua, di abuso verbale è il catcalling. Il catcalling è quella serie di “complimenti” e apprezzamenti che vengono fatti solitamente alle donne da uomini sconosciuti, per strada, al bar, in palestra, ecc. Comprende quei commenti che vanno dal “ciao bella”, al fischio di apprezzamento, alle volgarità più esplicite che gli sconosciuti spesso rivolgono alle donne. Questo fenomeno è tanto radicato da essere giustificato come un semplice complimento, qualcosa che le donne dovrebbero sentirsi onorate di ricevere. Ciò però non fa altro che rafforzare quei bias che vedono la donna come mero corpo, un oggetto desiderabile.
Curare il linguaggio, e il modo che abbiamo di esercitarlo, è il primo passo per curare gli stereotipi e la violenza. Il linguaggio è influenzato e influenza la realtà e proprio questa sua duplicità ci consente di agire per modificarlo. Innanzitutto bisogna prendere coscienza di tutte quelle sfumature, apparentemente innocue, che sono portatrici di pregiudizi e discriminazioni. È necessario riconoscere che il linguaggio può essere un’arma in grado di ferire e causare gravi danni alle persone, ma al tempo stesso può essere una cura. Come ha affermato Wittgenstein, i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo. Ma spingersi oltre quei limiti è possibile, cambiare è possibile proprio perché il pensiero può cambiare la parola, ma anche perché la parola può cambiare il pensiero.

1. www.neuroscienze.net/lingua-italiana-e-cervello


Articolo di Elena Caneva, Coordinatrice Area Advocacy Nazionale, Policy e Centro Studi, e
Martina Albini, Junior Advocacy Officer

2. Unconscious bias

2. unconscious bias (pre-giudizi inconsci)

Gli unconscious bias (pre-giudizi inconsci) dentro e fuori il contesto aziendale: cosa sono, quali effetti hanno, come prenderne coscienza e come superarli

Cosa sono gli unconscious bias
In psicologia il bias cognitivo indica un giudizio o un pre-giudizio (unconscious bias), sviluppato precedentemente all’esperienza e in assenza di dati empirici. Si tratta di un meccanismo cognitivo che ci porta a incasellare le persone all’interno di categorie per permetterci di “riconoscerle” più velocemente. Si finisce così per associare in maniera arbitraria caratteristiche, più o meno corrispondenti alla realtà, a tutti i membri di un gruppo sociale. Questo processo mentale genera la tendenza a considerare le persone sulla base di preconcetti, e spesso in maniera sfavorevole. Il pre-giudizio orienta il nostro comportamento, portandoci a discriminare gli altri per la loro provenienza etnica, o per l’orientamento sessuale, la classe sociale, la religione, il genere o per tutta una serie di altre caratteristiche.


Quali effetti hanno gli unconscious bias, come prenderne coscienza e come superarli
Ora, immaginiamo di essere costretti a indossare perennemente degli occhiali con delle lenti speciali. Avete presente quegli specchi deformanti che si trovano nei luna park? Ecco, quegli specchi sono le lenti speciali dei nostri occhiali. E come vedremo gli altri attraverso queste lenti? Per immagini deformate, immagini che ci raccontano solo una parte della realtà. Le lenti del pre-giudizio, infatti, alterano (e spesso banalizzano) la realtà, facendocela interpretare per associazioni: uomo uguale forza, donna uguale gentilezza, uomo uguale blu, donna uguale rosa… e ancora uomo uguale presidente, donna uguale casa…
Ma i nostri occhiali non si limitano solo a farci vedere la realtà in un certo modo: creano tendenze e indirizzi di comportamento, orientando i nostri atteggiamenti nei confronti degli altri. Citiamo alcuni esempi di comportamenti orientati dai bias: in presenza di una manager (o in generale di una donna che ricopre una posizione dirigenziale) e dei suoi collaboratori uomini, vi è spesso la tendenza a rivolgersi a questi ultimi che, nonostante ricoprano un ruolo di minore responsabilità, sono ritenuti più autorevoli perché uomini. Questo avviene proprio perché indossiamo le lenti del pre-giudizio, che attivano tutta una serie di associazioni mentali di cui spesso non ci rendiamo conto. E ancora: in presenza di donne, molti uomini sono portati ad adottare toni più accomodanti o a semplificare i discorsi per spiegare cose che a loro parere le donne, in quanto donne, non possono capire o alle quali si suppone non siano interessante (il fuorigioco ad esempio, oppure come cambiare una ruota di scorta). O ancora quanto spesso si è portati a rivolgersi a una donna con l’appellativo “Signora”, presupponendo che quella donna non possa essere una Dottoressa o una Ministra?
Non a caso tutti questi esempi sono relativi all’uso del linguaggio o alla scelta di termini specifici: esercitare consapevolmente la responsabilità della parola è uno degli strumenti più potenti che abbiamo per contrastare i bias.
La pubblicità è da sempre un grande catalizzatore di bias. Smacchiatori, sgrassatori, detersivi per le stoviglie… avete pensato all’immagine di una donna? Riuscite a pensare a una pubblicità di un qualche prodotto per la casa in cui non compaia una donna? E in maniera ancora più subdola: nelle pubblicità di prodotti per bambini, quante volte compare il padre rispetto alla madre? Donna uguale maternità, donna uguale colei che si occupa della casa… e così i nostri bias si alimentano e si rafforzano, confondendoci quando poi incontriamo persone che non rispondono a queste immagine predefinite e pre-codificate.
Il problema è che il modo in cui vediamo e nominiamo le persone influisce sulle stesse, sui loro comportamenti e la percezione del sé. Nelle scienze sociali questo fenomeno viene definito “la profezia che si auto-avvera”. Non è un caso che le donne stesse abbiano pregiudizi nei confronti del genere femminile. Da una ricerca condotta nel 2020 dall’UNDP è emerso che l’86% delle donne e il 91% degli uomini hanno almeno un pre-giudizio nei confronti del genere femminile. Circa 8 persone su 10 ritengono che gli uomini siano leader politici migliori, 4 su 10 pensano che siano più adatti a ricoprire ruoli dirigenziali nelle aziende e che i posti di lavoro dovrebbero essere assegnati prioritariamente agli uomini nel caso in cui il lavoro scarseggiasse. Pre-giudizi di questo tipo influenzano ad esempio la partecipazione politica delle donne.
Tutti noi pensiamo di non essere così tanto condizionati dai bias e di riuscire a vedere le persone per quello che sono… la verità, purtroppo, è che nessuno è immune ai bias. Come abbiamo visto, infatti, i bias sono meccanismi inconsci a cui tutti e tutte facciamo ricorso perché ci aiutano a interpretare la realtà (spesso semplificandola) per muoverci in essa. I bias, dunque, non sono necessariamente qualcosa di negativo perché possono aiutarci nella nostra vita quotidiana, ma se prevaricano sul nostro spirito critico possono portare a vere e proprie discriminazioni. È perciò importante essere consapevoli dell’invasività dei bias, che permangono anche quando meno ce lo aspetteremmo.
Facciamo l’esempio del recruiting. È ormai noto che i bias del recruiter possono incidere significativamente sui processi di selezione, tanto da ridurre le possibilità che una donna, a parità di competenze, venga assunta rispetto a un uomo. Lo stesso accade anche quando a prendere le decisioni è un’intelligenza artificiale (IA). Il settore dell’IA, infatti, è largamente popolato da uomini che (inconsciamente o meno) nei processi di machine learning non fanno altro che trasmettere all’IA stessa l’idea di mondo filtrata attraverso i loro occhiali. L’intelligenza artificiale, dunque, non è neutra: porta le lenti di chi l’ha creata.
Come si può risolvere questo problema? Una pratica che si sta diffondendo è quella del blind recruitment (reclutamento al buio) che, in fase di selezione, prevede l’omissione di alcune informazioni relative a genere, età, etnia, ecc. affinché queste non si trasformino in un filtro di sbarramento e favorendo così una valutazione basata sulle reali competenze ed esperienze delle persone.
Nella vita di tutti i giorni, invece, dobbiamo accettare che togliersi gli occhiali dei bias, e dunque non avere preconcetti, è quasi impossibile, ma possiamo impegnarci a indirizzare il nostro comportamento e linguaggio in maniera inclusiva.
Articolo di Elena Caneva, Coordinatrice Area Advocacy Nazionale, Policy e Centro Studi, e Martina Albini, Junior Advocacy Officer

1. Sesso e genere

1. Sesso e genere

Perché è importante capire la differenza e quali effetti hanno nella nostra vita quotidiana

Premessa
Tradizionalmente gli individui vengono divisi in uomini e donne sulla base delle loro differenze biologiche. Nel sentire comune, infatti, il sesso e il genere costituiscono un tutt’uno. Fermatevi un attimo e provate a spiegare cosa è per voi “genere” e cosa è “sesso”. Riuscite a dare due definizioni distinte? Oppure usate le parole “uomo, donna, maschio, femmina” in maniera interscambiabile? E queste parole sono sufficienti a coprire tutto lo spettro dei modi con cui le persone si definiscono?
In questo articolo cercheremo di spiegare i concetti di sesso e genere, e la differenza tra i due; cercheremo di illustrare come l’uso (erroneo) dei due termini in maniera interscambiabile porti alla sedimentazione di stereotipi e rigidi ruoli di genere, con conseguenze psicologiche, sociali ed economiche di rilievo.

Sesso, genere, identità di genere e ruoli di genere
Partiamo dal definire il sesso. Il sesso costituisce il nostro corredo genetico. È l’insieme dei caratteri biologici, fisici e anatomici con i quali vengono distinti maschio e femmina.
Con il termine genere si indicano le differenze socialmente e culturalmente costruite attorno all’identità femminile e a quella maschile, solitamente partendo dalle diversità fisiche e biologiche. Il genere è una costruzione culturale, è la rappresentazione, definizione e incentivazione di comportamenti che rivestono il corredo biologico e danno vita allo status binario uomo/donna. Il genere è dunque un processo che trasforma le differenze biologiche in differenze sociali e definisce donna e uomo. È un prodotto della cultura umana e il frutto di un persistente rinforzo sociale e culturale delle identità: viene creato quotidianamente attraverso una serie di interazioni che tendono a definire le differenze tra uomini e donne.
Come tale, il genere varia tra le culture, le aree geografiche e i periodi storici. Ad esempio, in alcune zone del subcontinente indiano viene riconosciuta l’esistenza di un terzo genere: gli hijra non si considerano né uomini né donne, pur essendo biologicamente per la maggior parte maschi. Non è quindi un carattere innato, ma appreso. È dinamico e relativo, perché ogni società definisce quali valori attribuire alle varie identità di genere, in cosa consiste essere uomo o donna1. Infine è un concetto relazionale: con il termine “genere” non ci riferiamo alle donne (come spesso si tende a fare), ma a donne e uomini e al loro modo di interagire. Se ci pensate, ciascuno di noi crea quotidianamente il genere, in modo automatico. In ogni contesto sociale siamo impegnati (spesso implicitamente e senza rendercene conto) a testimoniare continuamente la nostra appartenenza di genere attraverso il comportamento, il linguaggio, l’atteggiamento, ecc. Quando ci relazioniamo con una persona, tra le prime cose che notiamo vi è la sua appartenenza sessuale e il livello di corrispondenza tra determinate caratteristiche anatomiche e l’idea di donna e di uomo che ci aspettiamo e accettiamo.
Se siete genitori, provate a tornare al momento in cui avete acquistato il primo corredino per vostro figlio o vostra figlia. Sfido chiunque di voi a dirmi se ha pensato a un colore diverso dall’azzurro per un bimbo o dal rosa per una bimba. Nessuno? E anche tra chi lo avesse pensato, avete trovato un corredino che facesse al caso vostro? Forse ci siete riusciti, e ne avete preso uno bianco, o beige….con il risultato che il primo estraneo che ha visto vostro figlio vi ha detto: “Oh che bel…..!!! È un bambino? O una bambina? Comunque bellissimo/a, complimenti!”
Il vostro pargolo/a non ha ancora una ben definita identità di genere, ma ben presto (di fatto sin da subito) inizierà a forgiarsi. L’identità di genere è il risultato dell’interrelazione tra le attitudini dei genitori, l’educazione ricevuta e l’ambiente socioculturale. È il modo in cui un individuo percepisce il proprio genere, la percezione sessuata di sé e del proprio comportamento, acquisita attraverso l’esperienza personale e collettiva. Alla costruzione dell’identità di genere contribuiscono tutte le agenzie di socializzazione: famiglia, scuola, gruppo dei pari, mezzi di comunicazione, esperienze lavorative.
Strettamente correlato all’identità di genere è il ruolo di genere: l’insieme dei comportamenti, agiti all’interno delle relazioni con gli altri, e delle attitudini che in seno a un dato contesto storico-culturale sono riconosciuti come propri degli uomini e delle donne. Sono modelli che includono comportamenti, doveri, responsabilità e aspettative connessi alla condizione femminile e maschile e oggetto di aspettative sociali. Il ruolo di genere esprime quindi adattamento sociale alle norme condivise su attributi e condizioni fisiche, gesti, tratti di personalità, linguaggio, abitudini, ecc. Ad esempio siamo soliti attribuire all’uomo la razionalità, la forza, la capacità di protezione, e alla donna la sensibilità, la dolcezza e la capacità di cura. Queste caratteristiche vanno di pari passo con determinanti comportamenti e ruoli (di genere): ancora oggi in Italia è molto diffusa l’idea che la donna trovi la sua realizzazione prevalentemente nella cura delle faccende domestiche e familiari, e nel matrimonio, mentre è per lo più l’uomo che dovrebbe mantenere la famiglia, dedicarsi al lavoro e allo studio2.
Quando le identità e i ruoli di genere si cristallizzano, parliamo di stereotipi di genere. Gli stereotipi sono immagini semplificate, caratteristiche che vengono attribuite a tutti i membri di un gruppo e che ci aiutano a semplificare la realtà. Ma proprio perché tendono a semplificare e a uniformare, conducono spesso a interpretazioni errate, con conseguenze di rilievo sui singoli e a livello sociale. Influenzano infatti le aspettative delle persone (ci aspettiamo che una donna sia docile e sensibile e che un uomo sia forte e deciso, per cui quando non lo è gli si dice “non fare la femminuccia!”), producono effetti sulle persone (tenderemo a comportarci come gli altri si aspettano, in modo da non attirare critiche), infine contribuiscono a mantenere lo status quo e le differenze di potere.
Infatti, i ruoli di genere e gli stereotipi ad essi connessi hanno storicamente prodotto una gerarchia tra gli status di uomo e donna, ancora oggi presente e molto radicata. Il processo di costruzione dell’identità e dei ruoli di genere parte dal presupposto che donne e uomini siano gerarchicamente ordinati e perpetua l’esistenza di una asimmetria sociale, alla quale ci socializzano sin da piccoli (pensate solo a certi libri di testo, o racconti per bambini con eroi maschili a cavallo e principesse indifese, mamme che cucinano e stirano, papà che lavano l’auto e leggono il giornale…). Tutto ciò ha conseguenze gravi: stereotipi e discriminazioni influenzano ad esempio l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, ma anche le differenze di retribuzione a parità di impiego, o la partecipazione in ambito politico. Ma hanno effetti negativi anche sugli uomini, soggetti a modelli di mascolinità tossica, che nelle forme più estreme può sfociare nella violenza contro le donne e nei terribili femminicidi.

1. Le identità di genere sono molteplici. In questa sede parliamo delle identità di uomo e donna (identità binarie), ma il discorso è molto più ampio. Ci sono molte e diverse identità di genere (transgender, transessuali, cross dresser…..) ma vi è anche chi non si riconosce in nessun genere (agender) o chi si percepisce come un mix di generi (genderqueer, genderfluid).

2. L’esistenza di radicati stereotipi di genere emerge da diverse ricerche. Citiamo qui i numerosi sondaggi svolti da WeWorld dal 2015 ad oggi (“Rosa shocking”, “Rosa Shocking 2”, “Brief Report n. 4”), confermati anche da Istat (2019) “Gli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale”.