2. unconscious bias (pre-giudizi inconsci)

Gli unconscious bias (pre-giudizi inconsci) dentro e fuori il contesto aziendale: cosa sono, quali effetti hanno, come prenderne coscienza e come superarli

Cosa sono gli unconscious bias
In psicologia il bias cognitivo indica un giudizio o un pre-giudizio (unconscious bias), sviluppato precedentemente all’esperienza e in assenza di dati empirici. Si tratta di un meccanismo cognitivo che ci porta a incasellare le persone all’interno di categorie per permetterci di “riconoscerle” più velocemente. Si finisce così per associare in maniera arbitraria caratteristiche, più o meno corrispondenti alla realtà, a tutti i membri di un gruppo sociale. Questo processo mentale genera la tendenza a considerare le persone sulla base di preconcetti, e spesso in maniera sfavorevole. Il pre-giudizio orienta il nostro comportamento, portandoci a discriminare gli altri per la loro provenienza etnica, o per l’orientamento sessuale, la classe sociale, la religione, il genere o per tutta una serie di altre caratteristiche.


Quali effetti hanno gli unconscious bias, come prenderne coscienza e come superarli
Ora, immaginiamo di essere costretti a indossare perennemente degli occhiali con delle lenti speciali. Avete presente quegli specchi deformanti che si trovano nei luna park? Ecco, quegli specchi sono le lenti speciali dei nostri occhiali. E come vedremo gli altri attraverso queste lenti? Per immagini deformate, immagini che ci raccontano solo una parte della realtà. Le lenti del pre-giudizio, infatti, alterano (e spesso banalizzano) la realtà, facendocela interpretare per associazioni: uomo uguale forza, donna uguale gentilezza, uomo uguale blu, donna uguale rosa… e ancora uomo uguale presidente, donna uguale casa…
Ma i nostri occhiali non si limitano solo a farci vedere la realtà in un certo modo: creano tendenze e indirizzi di comportamento, orientando i nostri atteggiamenti nei confronti degli altri. Citiamo alcuni esempi di comportamenti orientati dai bias: in presenza di una manager (o in generale di una donna che ricopre una posizione dirigenziale) e dei suoi collaboratori uomini, vi è spesso la tendenza a rivolgersi a questi ultimi che, nonostante ricoprano un ruolo di minore responsabilità, sono ritenuti più autorevoli perché uomini. Questo avviene proprio perché indossiamo le lenti del pre-giudizio, che attivano tutta una serie di associazioni mentali di cui spesso non ci rendiamo conto. E ancora: in presenza di donne, molti uomini sono portati ad adottare toni più accomodanti o a semplificare i discorsi per spiegare cose che a loro parere le donne, in quanto donne, non possono capire o alle quali si suppone non siano interessante (il fuorigioco ad esempio, oppure come cambiare una ruota di scorta). O ancora quanto spesso si è portati a rivolgersi a una donna con l’appellativo “Signora”, presupponendo che quella donna non possa essere una Dottoressa o una Ministra?
Non a caso tutti questi esempi sono relativi all’uso del linguaggio o alla scelta di termini specifici: esercitare consapevolmente la responsabilità della parola è uno degli strumenti più potenti che abbiamo per contrastare i bias.
La pubblicità è da sempre un grande catalizzatore di bias. Smacchiatori, sgrassatori, detersivi per le stoviglie… avete pensato all’immagine di una donna? Riuscite a pensare a una pubblicità di un qualche prodotto per la casa in cui non compaia una donna? E in maniera ancora più subdola: nelle pubblicità di prodotti per bambini, quante volte compare il padre rispetto alla madre? Donna uguale maternità, donna uguale colei che si occupa della casa… e così i nostri bias si alimentano e si rafforzano, confondendoci quando poi incontriamo persone che non rispondono a queste immagine predefinite e pre-codificate.
Il problema è che il modo in cui vediamo e nominiamo le persone influisce sulle stesse, sui loro comportamenti e la percezione del sé. Nelle scienze sociali questo fenomeno viene definito “la profezia che si auto-avvera”. Non è un caso che le donne stesse abbiano pregiudizi nei confronti del genere femminile. Da una ricerca condotta nel 2020 dall’UNDP è emerso che l’86% delle donne e il 91% degli uomini hanno almeno un pre-giudizio nei confronti del genere femminile. Circa 8 persone su 10 ritengono che gli uomini siano leader politici migliori, 4 su 10 pensano che siano più adatti a ricoprire ruoli dirigenziali nelle aziende e che i posti di lavoro dovrebbero essere assegnati prioritariamente agli uomini nel caso in cui il lavoro scarseggiasse. Pre-giudizi di questo tipo influenzano ad esempio la partecipazione politica delle donne.
Tutti noi pensiamo di non essere così tanto condizionati dai bias e di riuscire a vedere le persone per quello che sono… la verità, purtroppo, è che nessuno è immune ai bias. Come abbiamo visto, infatti, i bias sono meccanismi inconsci a cui tutti e tutte facciamo ricorso perché ci aiutano a interpretare la realtà (spesso semplificandola) per muoverci in essa. I bias, dunque, non sono necessariamente qualcosa di negativo perché possono aiutarci nella nostra vita quotidiana, ma se prevaricano sul nostro spirito critico possono portare a vere e proprie discriminazioni. È perciò importante essere consapevoli dell’invasività dei bias, che permangono anche quando meno ce lo aspetteremmo.
Facciamo l’esempio del recruiting. È ormai noto che i bias del recruiter possono incidere significativamente sui processi di selezione, tanto da ridurre le possibilità che una donna, a parità di competenze, venga assunta rispetto a un uomo. Lo stesso accade anche quando a prendere le decisioni è un’intelligenza artificiale (IA). Il settore dell’IA, infatti, è largamente popolato da uomini che (inconsciamente o meno) nei processi di machine learning non fanno altro che trasmettere all’IA stessa l’idea di mondo filtrata attraverso i loro occhiali. L’intelligenza artificiale, dunque, non è neutra: porta le lenti di chi l’ha creata.
Come si può risolvere questo problema? Una pratica che si sta diffondendo è quella del blind recruitment (reclutamento al buio) che, in fase di selezione, prevede l’omissione di alcune informazioni relative a genere, età, etnia, ecc. affinché queste non si trasformino in un filtro di sbarramento e favorendo così una valutazione basata sulle reali competenze ed esperienze delle persone.
Nella vita di tutti i giorni, invece, dobbiamo accettare che togliersi gli occhiali dei bias, e dunque non avere preconcetti, è quasi impossibile, ma possiamo impegnarci a indirizzare il nostro comportamento e linguaggio in maniera inclusiva.
Articolo di Elena Caneva, Coordinatrice Area Advocacy Nazionale, Policy e Centro Studi, e Martina Albini, Junior Advocacy Officer