3. La violenza nelle parole

Linguaggio sessista, mansplaining, catcalling, abusi verbali

Premessa
La violenza, in particolare quella di genere, è in grado di assumere forme subdole, insinuandosi in comportamenti apparentemente innocui e in stereotipi spesso inconsapevoli. Può annidarsi ovunque, anche nelle parole.
Come? Partiamo innanzitutto dal definire la differenza tra linguaggio e lingua, spesso usati (erroneamente) come sinonimi. Il linguaggio è un qualsiasi sistema di segni usato per comunicare: può essere verbale o non verbale, scritto, numerico, umano o persino animale. La lingua, invece, è una manifestazione verbale, storicamente determinata, del linguaggio. Esercitare responsabilmente linguaggio e lingua è un primo e importante passo per contrastare pratiche escludenti e discriminatorie, come la violenza di genere.


Linguaggio sessista, mansplaining, catcalling, abusi verbali
Il linguaggio è un mezzo potente in grado di veicolare costrutti sociali e creare narrazioni che finiscono per definire la realtà in cui viviamo. L’uso di un linguaggio violento è a tutti gli effetti una forma di violenza. Pensiamo al caso della violenza di genere: il ricorso reiterato a un linguaggio sessista influenza la visione che abbiamo del genere, alimentando i pregiudizi.
Siamo portati a pensare che il linguaggio sia semplicemente un mezzo “oggettivo” per veicolare contenuti. Di fatto il linguaggio contribuisce a plasmare la realtà in cui viviamo, e il modo in cui scegliamo di usare le parole trasmette una certa idea di mondo.
Vi sembra poco chiaro? Facciamo alcuni esempi.
“Marco, Francesca e Lucia sono appena arrivate”. Vi suona strano? Se dovessimo seguire le regole che ci hanno insegnato alle scuole elementari probabilmente diremmo “sono appena arrivati”, ma riflettendoci un attimo su… perché dobbiamo proprio declinare al maschile? Francesca e Lucia sono due, mentre Marco è uno solo: non vale la regola della maggioranza? In questo caso no, perché in italiano esiste una particolare convenzione chiamata “maschile universale”. Ma chi ha deciso che il maschile plurale deve per forza essere la forma che include l’universale? Chi ha deciso che “normale” è maschile? La normalità del maschile non è una regola, ma un’ideologia. Un’ideologia che si è costruita sulla dominanza del maschile, su retaggi storici patriarcali. La questione del genere grammaticale racchiude altre criticità. Pensiamo alla reticenza nel declinare certe professioni al femminile: ministra, sindaca, assessora, ingegnera… per non parlare della famigerata architetta, la cui assonanza con il seno femminile fa storcere il naso ai più. Eppure, tornando ancora alle regole imparate alle elementari, si tratta di forme grammaticalmente corrette. Nominare è la prima azione per dare significato all’esistenza. Ciò che non si nomina, non esiste. Questo accade spesso anche sui media e i quotidiani nazionali, che preferiscono ricorrere a perifrasi colorite come “La regina delle stelle” piuttosto che riportare nome, cognome e ruolo di una celebre astrofisica. È solo un’altra forma di linguaggio sessista. In questo caso il problema non è linguistico,
ma socio-linguistico. La lingua modifica la realtà, e se ci abituiamo a non parlare di donne, tenderemo a non prenderle in considerazione. Studi neurolinguistici hanno infatti dimostrato quanto la lingua sia in grado di modellare non solo il nostro pensiero, ma di modificare il cervello stesso, e dunque la nostra percezione della realtà[1].
Il fatto che la nostra lingua sia stata, e si sia, costruita attorno a una cultura di origine patriarcale ha conseguenze sul modo che abbiamo di guardare e di raccontare le donne. Tutte le forme linguistiche portatrici di categorizzazioni e ideologie, come appunto il linguaggio sessista, sono talmente radicate nel nostro sentire che difficilmente le riconosciamo, finendo per utilizzare espressioni anche lontane dai valori e dalle convinzioni che ci appartengono. Pensate all’espressione “una donna con le palle”, o ancora “una donna cazzuta”. A primo acchito vi sembrano positive, vero? Ma pensandoci bene, perché una donna, per essere ritenuta forte, risoluta, assertiva dovrebbe necessariamente avere attributi maschili? Stiamo forse sottintendendo che per diventare modelli positivi le donne dovrebbero assomigliare agli uomini? Che quello maschile è l’unico modello a cui aspirare?
C’è poi il problema del cosiddetto double standard, o doppio senso, attribuito a espressioni nella loro declinazione femminile e maschile. Pensiamo alle immagini diverse che evocano “un uomo della strada” vs “una donna della strada”, “un massaggiatore” vs “una massaggiatrice”, “un gatto morto” vs “una gatta morta” ecc. Si tratta di espressioni molto connotate (per lo più sessualmente) che rimandano a una visione oggettivizzata della donna.
Il linguaggio sessista è un’arma a doppio taglio e colpisce anche gli uomini. Espressioni come “Non fare la femminuccia”, “Sono cose da maschi”, “Mammo” (al posto di papà) rafforzano un ideale di virilità artefatto e la netta separazione tra caratteristiche arbitrariamente attribuite agli uomini e alle donne.
Il predominio maschile nella conversazione si esplicita anche nel cosiddetto mansplaining, in italiano “minchiarimento” o, usando una perifrasi, “uomini che spiegano cose alle donne”. Il mansplaining indica “l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini quando spiegano a una donna qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne più di lei oppure che lei non capisca davvero”. Questo atteggiamento (che può essere più o meno esplicito, più o meno consapevole) finisce per delegittimare le donne e le loro capacità. Ha conseguenze emotive, psicologiche e sociali su chi ne è il bersaglio; sui luoghi di lavoro può portare a escludere le donne, anche se qualificate, dalle decisioni di responsabilità e dalle posizioni apicali. Questi esempi ci aiutano a comprendere come un uso improprio e dominatorio del linguaggio possa sfociare in violenza. Quando si abusa verbalmente di qualcuno la parola diventa strumento per il maltrattamento emotivo. Ciò può avvenire tramite denigrazioni, derisioni, urla, minacce, insulti, critiche continue. Quanto più prolungata e intensa è la natura dell’abuso verbale, tanto più profonde saranno le ferite inferte e le conseguenze avverse per la salute psicofisica della vittima.
Una forma forse più sottile, spesso anzi considerata innocua, di abuso verbale è il catcalling. Il catcalling è quella serie di “complimenti” e apprezzamenti che vengono fatti solitamente alle donne da uomini sconosciuti, per strada, al bar, in palestra, ecc. Comprende quei commenti che vanno dal “ciao bella”, al fischio di apprezzamento, alle volgarità più esplicite che gli sconosciuti spesso rivolgono alle donne. Questo fenomeno è tanto radicato da essere giustificato come un semplice complimento, qualcosa che le donne dovrebbero sentirsi onorate di ricevere. Ciò però non fa altro che rafforzare quei bias che vedono la donna come mero corpo, un oggetto desiderabile.
Curare il linguaggio, e il modo che abbiamo di esercitarlo, è il primo passo per curare gli stereotipi e la violenza. Il linguaggio è influenzato e influenza la realtà e proprio questa sua duplicità ci consente di agire per modificarlo. Innanzitutto bisogna prendere coscienza di tutte quelle sfumature, apparentemente innocue, che sono portatrici di pregiudizi e discriminazioni. È necessario riconoscere che il linguaggio può essere un’arma in grado di ferire e causare gravi danni alle persone, ma al tempo stesso può essere una cura. Come ha affermato Wittgenstein, i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo. Ma spingersi oltre quei limiti è possibile, cambiare è possibile proprio perché il pensiero può cambiare la parola, ma anche perché la parola può cambiare il pensiero.

1. www.neuroscienze.net/lingua-italiana-e-cervello


Articolo di Elena Caneva, Coordinatrice Area Advocacy Nazionale, Policy e Centro Studi, e
Martina Albini, Junior Advocacy Officer