Premessa
Per le donne, l’empowerment economico rappresenta un requisito fondamentale verso il raggiungimento di maggiore autonomia, potere decisionale e, nei casi di violenza, per intraprendere percorsi di fuoriuscita. Tuttavia, le condizioni di accesso al mercato del lavoro, ma anche la qualità del lavoro svolto, e la retribuzione delle donne presentano ancora differenze sostanziali rispetto a quelle degli uomini. In Italia meno di una donna su due lavora, e prima dell’arrivo della pandemia la differenza nel tasso di occupazione tra uomini e donne era di quasi 20 punti percentuali[1], con un divario di genere tra i più alti d’Europa, ovvero circa 18 punti contro una media europea di 10[2]. La pandemia ha aggravato questa situazione di sostanziale disparità, al punto che WeWorld ha stimato che la perdita di occupazione femminile, tra il 2019 e il 2020, corrisponde al 22% della perdita di PIL del paese[3].
La maternità come ostacolo all’occupazione
Purtroppo, i figli sembrano ancora rappresentare un ostacolo alla piena occupazione delle donne, con l’11% delle madri che non ha mai lavorato. Alla nascita dei figli, la quota di donne che hanno abbandonato il lavoro è pari all’11% nel caso ne abbiano avuto uno solo, al 17% con due figli e al 19% con tre o più. E ancora: sono il 38,3% le donne occupate che, dopo la nascita dei figli, hanno apportato almeno una modifica all’orario di lavoro, contro l’11,9% dei padri occupati[4]. La maternità è inoltre associata a una forte perdita salariale per le donne. Ciò avviene per una molteplicità di ragioni culturali, sociali ed economiche, nonché per la mancanza di adeguati sistemi di welfare che sostengano le famiglie nella crescita e cura dei figli/e. Tale effetto, conosciuto come child penalty, si traduce in cifre allarmanti: in Italia la perdita di lungo periodo nei salari annuali delle madri determinata dalla nascita di un figlio è del 53% di cui il 6% è dovuta alla riduzione del salario settimanale, l’11,5% dovuto al part-time e il 35,1% dovuto al minor numero di settimane retribuite[5]. Tutto ciò ha conseguenze di rilievo sulle scelte riproduttive delle donne e delle famiglie. Non a caso il nostro paese continua a segnare record negativi per quanto concerne la natalità: nel 2020 l’Italia ha registrato il numero di nascite più basso dai tempi dell’Unità d’Italia[6]. Ma scelta della maternità e occupazione femminile non si precludono a vicenda, al contrario in molti paesi europei è stata dimostrata una relazione positiva tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità totale: dove la fecondità media è molto bassa, sotto 1,4 figli per donna (ad es. Italia, Spagna, Grecia, Malta) il tasso di occupazione femminile è inferiore al 60%; dove la fecondità media è superiore a 1,7 (paesi baltici e Regno Unito) il tasso di occupazione è superiore al 70%. Dunque, dove esiste un contesto favorevole alle famiglie da parte delle imprese e dei servizi, in cui esistono adeguati strumenti di conciliazione, il lavoro delle donne non è più un ostacolo alla maternità, ma un prerequisito per aumentare i livelli di natalità[7].
Il Gender Pay Gap
A ostacolare una piena occupazione femminile si aggiungono altre problematiche, quali la femminilizzazione di alcuni settori lavorativi (servizi, professioni sanitarie, commercio al dettaglio ecc.), la difficoltà nell’accedere a posizioni apicali, la sovra-istruzione rispetto ai ruoli e alle mansioni ricoperte, e il Gender Pay Gap. Il Gender Pay Gap (GPG) consiste nella discriminazione salariale di genere, ovvero la differenza, a parità di mansione e di competenze, tra la retribuzione di uomini e donne. Se si considerano le sole differenze salariali tra uomini e donne (il cosiddetto GPG grezzo), apparentemente sembrano non esistere discriminazioni di rilievo tra i generi. Se invece si considerano oltre al salario altri fattori (quali il numero di settori a prevalenza di personale femminile, il numero mensile delle ore retribuite, il numero dei lavoratori part time e il numero di donne in posizioni dirigenziali), la differenza salariale tra uomini e donne è elevata (43,7% vs una media europea del 39%[8]). Secondo il Gender Gap Report (2020) a livello mondiale la parità in ambito economico non verrà raggiunta prima di 257 anni.
Le motivazioni culturali
Tra le varie ragioni alla base di queste disparità si trovano radicati stereotipi. Le donne, infatti, devono costantemente fare i conti con un sistema socio-culturale di derivazione patriarcale che le vede ancora come principali caregiver, addette ai compiti di cura e accudimento, mentre l’uomo resta il breadwinner, colui che deve provvedere al sostentamento della famiglia. Da indagini svolte da WeWorld nel corso degli anni emerge una visione abbastanza stereotipata della donna. La figura femminile troverebbe la sua realizzazione prevalentemente nella cura delle faccende domestiche e familiari (l’uomo non è immune dal doversi occupare delle faccende domestiche certo, ma è la donna ad essere capace di sacrificarsi per la famiglia, molto più di quanto sappia fare l’uomo, soprattutto in presenza di figli), mentre è per lo più l’uomo che dovrebbe mantenere la famiglia, dedicarsi al lavoro e allo studio[9]. Ciò naturalmente incide sulla partecipazione delle donne al mondo del lavoro, ancora molto legata ai carichi familiari e al lavoro di cura che continuano a rappresentare un paradosso per l’empowerment femminile, relegando le donne in posizioni di subalternità rispetto agli uomini. A causa del carico sproporzionato di lavoro domestico e di cura, le donne soffrono di “povertà di tempo” da poter investire in istruzione, lavoro retribuito, o anche solo nel tempo libero. Nel mondo, il tempo che le donne spendono per il lavoro di cura o domestico è 2,5 volte superiore a quello degli uomini[10]. Si stima che se venisse assegnato un valore monetario al lavoro domestico e di cura delle donne, questo si aggirerebbe tra il 10 e il 39% del PIL globale[11].
Quali soluzioni?
Per contrastare tali disparità, è necessario far sì che tutte e tutti possano contare su pari condizioni di partenza, seguire gli stessi percorsi di studi, accedere a posizioni apicali, non dover rinunciare alla carriera per accudire i figli. Molte aziende si stanno dotando di sistemi più trasparenti, pubblicando ad esempio la retribuzione dei loro dipendenti con l’indicazione di genere, e di politiche di welfare aziendale che garantiscono una migliore conciliazione dei tempi di vita-lavoro. Su quest’ultimo punto sarà però necessario svolgere un grande lavoro culturale. Potenziare strumenti come il congedo di paternità e i congedi parentali per i padri rappresenta una delle policy più efficaci[12] non solo per coinvolgere maggiormente i padri nella cura dei figli, riequilibrando il divario di genere nel lavoro non retribuito, ma anche per consentire alle donne di rientrare più velocemente nel mercato del lavoro (con conseguenze sui salari e le carriere lavorative). Coinvolgere pienamente le donne nel mercato del lavoro è necessario perché si tratta di una questione di giustizia sociale, ma anche per la crescita economica che tale coinvolgimento comporterebbe. È ormai condiviso che la parità di genere – oltre ad essere un valore universale a cui tendere e un diritto per le donne – è precondizione essenziale per lo sviluppo.
1. Censis (2019), Respect
2. Istat (2020), Misure a sostegno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per la conciliazione di esigenze di vita e lavoro
3. WeWorld (2021), Mai più invisibili. Indice 2021: Donne, bambine e bambini in Italia ai tempi del Covid-19
4. Ibidem
5. INPS (2020), XIX Rapporto Annuale. INPS tra emergenza e rilancio
6. Istat (2021). BES 2020. Il benessere equo e sostenibile in Italia, (accesso marzo 2021)Istat (2021a), Primi riscontri e riflessioni sul calo demografico nel 2020,
7. InGenere (2018), Nascite e occupazione possono crescere insieme
8. OECD (2020), Gender wage gap
9. WeWorld (2014), Rosa Shocking WeWorld (2015), Rosa Shocking 2 WeWorld (2017), Gli italiani e la violenza assistita. Questa sconosciuta.
10. ILO (2017), World Employment Social Outcome – Trends for Women 2017
11. UNRISD,(2010), Research and Policy Brief 9:Why Care Matters for Social Development
12. WeWorld (2021), Promuovere l’empowerment economico femminile attraverso i congedi di paternità e i congedi parentali per i padri
A cura di Elena Caneva e Martina Albini, Area Advocacy Nazionale, Policy e Centro Studi